Bambini e ragazzi autistici tra gli 8 e i 20 anni maltrattati e picchiati. Cinque educatori per bambini autistici di un centro socio educativo finiscono in carcere. È il 14 luglio 2014 quando i carabinieri liberano i giovani ospiti della Casa di Alice a Grottamare, una località vicina a San Benedetto Del Tronto.
Ma come si deve comportare un educatore, quali sono i requisiti che deve avere per poter assistere un ragazzo disabile? Parliamone con la Dott.ssa Marina Collacchi, psicoterapeuta e responsabile del servizio diurno presso un Centro per ragazzi autistici a Roma.
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L’Autismo
Che cos’è l’autismo e quali sono i sintomi di questa patologia? “L’autismo non è una malattia, è una sindrome, è un disturbo dello sviluppo che si manifesta nei primi anni di vita del bambino – spiega Marina Collacchi – le cui cause sono ancora oggi poco chiare, sconosciute, anche se la ricerca scientifica si orienta sempre di più su ipotesi neurologiche, genetiche, ricercando comunque quelli che possono essere i fattori organici”.
Per quanto riguarda i sintomi, “le aree maggiormente compromesse sono quelle dell’interazione sociale, l’area della comunicazione, del linguaggio, l’area del comportamento, delle attività, degli interessi, delle modalità di giocare di un bambino autistico. Spesso si può vedere un bambino e la tendenza all’isolamento, a non ricercare l’interazione con l’altro, può manifestare difficoltà a stare con gli altri, può non avere un’ interazione spontanea, una ricerca spontanea del rapporto e del contatto con l’altro; il contatto corporeo può essere poco ricercato e anche poco gradito; i bambini autistici possono avere difficoltà a tenere lo sguardo rivolto verso l’interlocutore e avere un’attenzione condivisa; possono a volte non rispondere quando vengono chiamati per nome.
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Spesso nei bambini con pochi mesi di vita può non essere presente quella che viene definita reazione all’estraneo, cioè quando un bambino si trova di fronte a un volto che non è familiare, il volto di un genitore, che può mostrare reazioni di paura e di spavento, mentre il bambino autistico può mostrare indifferenza, può non accorgersi della presenza di un estraneo nel proprio raggio visivo”.
E l’ambito della comunicazione e del linguaggio può essere seriamente compromesso, può essere assente, può essere in ritardo, spesso c’è una produzione verbale ridotta, c’è una produzione linguistica eco lavica, ripetere frasi, parole, enunciati semplici.
Vengono chiamate le cosiddette stereotipie, queste azioni e movimenti motori ripetitivi, come sfarfallare le mani, come dondolarsi, che spesso interferiscono anche nelle attività quotidiane. Può esserci un’attività ristretta, degli interessi limitati, giocare in maniera finalistica, essere interessati ad alcune parti di un gioco o di un oggetto e utilizzarlo con nessun intento simbolico”.
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I sintomi dell’autismo
“I sintomi sono vari, sono complessi – sottolinea Marina Collacchi – c’è purtroppo spesso anche la presenza di atti auto aggressivi o etero aggressivi, come mordersi. Data la vastità di sintomi si dovrebbe parlare di autismi e non di autismo perché ogni bambino ha delle proprie caratteristiche e un proprio modo di stare al mondo e di rapportarsi con la realtà che lo circonda. Ha delle proprie caratteristiche personali che difficilmente ritroveremmo in un altro bambino.
“Ed è importante ricordare che proprio perché questa varietà di sintomi si manifesta nei primi anni di vita di un bambino, quello che era e resta fondamentale è la diagnosi precoce. Individuare precocemente questi sintomi, questi segnali, questi tratti, ci consente poi di migliorare la qualità di vita del bambino e del futuro adulto.
Consente di pianificare dei percorsi educativi individualizzati che tengono conto delle sue competenze, delle sue difficoltà, al fine di migliorare il suo percorso evolutivo e la qualità di vita delle proprie famiglie. La diagnosi precoce è uno strumento di azione ed intervento fondamentale”.
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L’educatore dei bambini autistici
Quali sono i requisiti che deve avere un educatore per bambini autistici?
“Un educatore per i bambini autistici prima di tutto deve avere la formazione, deve avere coscienza di cosa sia la sindrome autistica e cosa non è – continua Marina Collacchi -. E questa formazione ovviamente non deve derivare solo da conoscenze teoriche, ma deve essere maturata e sperimentata nel campo, anche attraverso l’affiancamento di colleghi più esperti.
Questa conoscenza, questa esperienza, che non si può improvvisare, consente all’educatore o all’operatore di riferimento di avere quegli strumenti che gli consentono di approcciarsi, di entrare piano piano nel mondo di un bambino autistico, gli consente di avere quelle conoscenze per sapere che tipo di voce deve avere, come utilizzare la propria voce, di sapere che le parole a volte confondono più che aiutare e tante parole possono confondere… Di fare delle richieste chiare.
Deve avere un’ottima capacità di analisi, di osservazione per capire proprio quali sono quei fattori antecedenti che a volte possono creare delle reazioni di crisi o delle reazioni apparentemente incomprensibili. Un operatore dovrebbe avere anche una capacità critica per capire quali possono essere anche in maniera involontaria quelle azioni o quei detti che possono aver causato delle reazioni oppositive.
Deve sapersi mettere in discussione, deve avere anche l’onestà professionale di chiedere aiuto se ha una difficoltà nella gestione di un comportamento, e poi l’ottimo sarebbe che avesse una conoscenza interiore, che avesse fatto un percorso di crescita personale perché nelle relazioni con un bambino autistico entrano in gioco tante dinamiche, tante emozioni, tante reazioni, di paura, di gioia, di frustrazione.
Ed esserne consapevoli e in qualche modo capaci nel gestirli ci tutela, sia noi stessi ma anche l’altro, bambino, ragazzo o adulto autistico che sia, perché già lui stesso è impegnato nella gestione difficile delle proprie emozioni e questo consente e favorisce che il rapporto, l’incontro con l’altro sia in realtà uno scambio, una ricchezza reciproca.”
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L’educatore per i bambini autistici: quali problemi possono insorgere?
Quali sono le problematiche più ricorrenti che un educatore per bambini autistici può riscontrare in questi ragazzi?
“Spesso proprio questa difficoltà nell’area del linguaggio, nella difficoltà di esprimere verbalmente, così come noi siamo abituati a fare, delle difficoltà, delle richieste, delle esigenze che delle volte possono scatenare delle reazioni oppositive, dei comportamenti apparentemente incomprensibili.
Talvolta possono avere anche delle reazioni violente, sia nei propri confronti, possono mordersi, graffiarsi o anche lanciare oggetti o anche verso l’altro, sia persona o oggetto fisico. È importante considerare che qualsiasi comportamento, anche quello cosiddetto problematico, è comunque una forma di comunicazione, non verbale, come noi siamo abituati a rapportarci e a intendere, ma è una forma di comunicazione, ci sta dicendo qualcosa, qualcosa che non siamo stati in grado di cogliere e di comprendere.
È un modo di comunicare, certo non convenzionale come noi siamo abituati, ma ci sta comunque comunicando un suo bisogno, una sua difficoltà, una sua esigenza. E qui ritorniamo all’importanza dell’operatore che deve imparare a conoscere i suoi antecedenti. Quindi è prevenirli attraverso la conoscenza del bambino o del ragazzo, è la prevenzione che evita spesso l’insorgenza di crisi”.
Le reazioni violente: come deve agire l’educatore dei bambini autistici
Ma nel momento in cui un ragazzo autistico si scatena con violenza, come deve reagire in quel momento l’educatore? Le è mai capitato?
“Si, mi è capitato – confessa Marina Collacchi -. L’educatore per i bambini autistici che ha esperienza, che è preparato, di fronte alla violenza rimane sempre un po’ impreparato. Però è la conoscenza del ragazzo e la conoscenza delle nostre proprie reazioni che ci aiuta anche a saperlo contenere, a gestire la sua crisi senza farsi male e senza fare male.
A volte dico che anche riconoscere la propria emozione, spesso è quella di paura perché essere aggrediti non è uno stato d’animo che fa piacere a nessuno, però verbalizzare all’altro, in questo caso al ragazzo autistico, che in quel momento si ha paura, dirgli che può fare male o ti puoi fare male… Già questo ti può aiutare a contenere.
Le reazioni aggressive ci possono essere ma la prevenzione di cui dicevo prima mira proprio a questo, la conoscenza del ragazzo, l’osservazione del suo modo di stare al mondo, di rapportarsi con l’esterno ci aiuta anche ad evitare che le reazioni possano essere così imprevedibili o violente”.
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Da un volantino all’autismo
Perchè lei ha dedicato la sua vita ai ragazzi autistici, cos’è che l’ha avvicinata all’autismo?
“L’incontro con l’autismo è stato casuale – racconta Marina Collacchi – anche se io poi non credo nella casualità, credo che poi ci sia un filo, che facciamo fatica ad individuare. Un filo che poi accomuna tutte le nostre esperienze.
Per me è stato apparentemente banale: nel corso di una preparazione di un esame all’università mi sono imbattuta in un libro che descriveva un bambino autistico, del suo particolare modo di guardare di traverso, di questi occhi blu a volte impenetrabili – hanno lo sguardo a volte molto particolare i bambini autistici…sembra che ti guardano dentro delle volte – e mi aveva suscitato un immediato interesse, grande curiosità.
Di lì a poco, sempre casualmente, ho incontrato dentro l’università dei volantini che pubblicizzava un corso dove si ricercavano volontari per lavorare con l’autismo. Io ero in partenza per un viaggio, ho telefonato per prendere un appuntamento. Al ritorno da questo viaggio mi sono presentata con un po’ di titubanza, di emozione ma anche di incertezza perché non conoscevo ne la struttura ne chi ci lavorava.
Dopo un breve colloquio è iniziato questo corso di formazione e la prima volta che sono entrata in una stanza di lavoro con un bambino autistico, affiancata appunto da un operatore più esperto, ero emozionatissima.
Ero impacciata perché c’era questo bambino impegnato in questo suo rituale, i famosi rituali ossessivi che a volte è difficile comprendere o interrompere, che mandava avanti e indietro un frammento di un video, nonostante l’operatore cercasse di entrare in questa sua stereotipia e proporgli altro, io non sapevo neanche se toccarlo, salutarlo. Stavo proprio in punta dei piedi. Poi lui è venuto a sedersi sulle mie gambe senza guardarmi e senza toccarmi e lì per me si è aperto un mondo.”
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Il rapporto con le famiglie: il diario di bordo
Che rapporto ha con le famiglie di questi ragazzi?
“I rapporti con le famiglie di questi ragazzi sono fondamentali, il rapporto con le famiglie è parte integrante della presa in carico del ragazzo o del bambino, è un alleato indispensabile, perché è uno scambio continuo di informazioni, è confrontarci continuamente anche su altri aspetti che non vanno, di difficoltà su progetti e obiettivi comuni da condividere.
Noi nel nostro ambito psicoeducativo e riabilitativo, loro nel proprio contesto familiare perché poi il fine ultimo è quello di generalizzare gli apprendimenti che questi ragazzi fanno, quello che imparano a fare con me è importante che lo riportino nel loro contesto di vita, che poi è lì che loro staranno per migliorare la qualità di vita loro e delle loro famiglie.
Con le famiglie facciamo colloqui, a volte intensificati se ci sono delle difficoltà, se c’è un disagio o una problematica da gestire. Noi abbiamo introdotto un diario, spesso non abbiamo un contatto diretto quotidiano con le famiglie, per cui abbiamo introdotto un diario di bordo, un diario quotidiano, dove vengono annotate sia le quotidianità, cosa hanno mangiato, cosa hanno fatto, se ci sono state delle difficoltà anche nell’andare in bagno.
Perché loro non sono in grado di riferire niente e quindi è importante avere anche questo contatto. E poi vengono annotate le giornate positive, gli elementi nuovi ed è un continuo scambio di informazioni. Poi io credo molto in questo strumento di lavoro perché consente alle famiglie di buttare un occhio laddove loro non possono stare e di vedere un po’ che cosa fanno i loro figli, come vengono coinvolti nella quotidianità.”
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La fiducia tradita
Spesso sentiamo parlare di violenza, di crudeltà e di abusi sui più deboli, in questo caso parliamo di ragazzi e di bambini autistici, lei cosa ne pensa riguardo al fatto avvenuto a Grottammare?
“È ovvio che la prima reazione è di indignazione – prosegue Marina Collacchi – una reazione di rabbia e di amarezza, di dolore, di una fiducia tradita, gravemente tradita, perché la cosa più grave di questi ragazzi, bambini o adulti autistici che siano, è che non sono in grado ne di difendersi, ne di riferire quello che accade nelle loro quotidianità quando non sono con le loro famiglie.
Quindi sono completamente nelle mani di un operatore che, è brutto dirlo, può rapportarsi a loro come vuole. Da qui che ritorna l’importanza di un operatore formato, un operatore che sia anche consapevole delle difficoltà, non può improvvisare un operatore di un ragazzo autistico.”
Trova che sia scioccante che una persona che fa la sua professione possa arrivare a fare del male a questi bambini?
“Ci possono essere dei momenti difficili, non possiamo dire che lavorare con un bambino autistico sia sempre rose e fiori, è un lavoro impegnativo che ci mette a dura prova, ci sono delle situazioni in cui sembra di tornare indietro nel lavoro e nel percorso di crescita.
Questo è fonte di frustrazione, è fonte anche di rabbia, un senso di impotenza, per questo l’operatore dovrebbe stare in un contesto dove vengono previste supervisioni, riunioni d’equipe, discussioni dei casi più problematici, monitorare il livello di ibernau dell’operatore stesso e avere anche la capacità di rendersene conto.
Non è solo portare a casa uno stipendio è anche sapere che forse è il momento per prendersi una pausa o quantomeno di essere messo nelle condizioni di essere supportato.”
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Marina Collacchi – Dall’autismo al teatro
Allontaniamoci un attimo per alleggerire l’argomento che è molto forte e pesante, vorrei sapere una cosa: cosa c’entra il teatro con l’autismo?
“Il teatro, la mia passione, il mio interesse. Il teatro è sempre stato un sogno nel cassetto, nel senso che è sempre stato una mia passione che piano piano ha preso forma, poi questa consapevolezza è arrivata in una età un po’ più grande ero troppo grande per frequentare corsi di recitazione.
E ho avuto modo di sperimentarmi in altro modo, è stata una grande ricchezza. La cosa bella e la cosa che accomuna è che in campo ci sono tante emozioni: le emozioni che mi dà il teatro sono delle emozioni incontaminate.”
Ma il teatro l’aiuta poi con i ragazzi autistici e viceversa? C’è un legame tra loro?
“Il legame che ci sta, nella mia esperienza, è che mi aiuta a sdrammatizzare, che mi aiuta a sfruttare una dote che è l’ironia, a provare a mettermi in gioco, perché poi è un mettersi in gioco continuamente.
Però una differenza c’è: con i ragazzi autistici non puoi interpretare, con i ragazzi autistici tu devi essere autentica nel modo più umano che ti riesce, perché loro hanno di buono che non hanno filtri. Non puoi fingere con loro – conclude Marina Collacchi – nel teatro ti puoi permettere di fingere ed essere altro. Con loro no.”
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