Ogni Paralimpiade lascia la scia

Ricordo che prima e dopo Londra 2012 mi sono avvicinata alla cultura britannica, recandomi più volte nella capitale inglese e studiando la lingua con più intensità. Mi comprai anche un fumetto di humor british che proprio non mi faceva ridere e poi ho iniziato a notare le marche dei thè che compravo al supermercato. Poca roba, direte, eppure era già un sintomo di come il luogo in cui si sarebbero i Giochi avrebbe influenzato la mia quotidianità.

Prima di Rio 2016 ricordo di aver scoperto una parte dell’infinito repertorio musicale brasiliano e di essermene innamorata. Ho imparato la lingua e l’ho praticata nei miei giri portoghesi e a Rio stessa in occasione del test event prima della Paralimpiade. Avevo nella mia camera di Bologna la fotografia del Cristo Rei, la statua che domina la baia di Rio, dove poi mi sarei recata a fine gare. Ho stretto amicizia con atleti brasiliani e sono anche stata ospite a casa di una ragazza ipovedente; siamo state insieme in spiaggia e lei nemmeno si è tuffata, da quanto era abituata a quella bellezza.

Ho fatto un viaggio dopo la Paralimpiade, lasciando prima bagagli e medaglie in mani salve che tornavano in Italia, e ho visitato luoghi meravigliosi, come Ilha Grande, paradisiaca isola a sud di Rio, o mi son persa nella magia delle strade di Salvador, con la sua musica e la sua capoeira. Potrei parlarne per ore, ma non è questo il momento di dilungarmi sul Brasile. Tutt’ora ascolto musica brasiliana e seguo dei comici online che mi fanno morire dal ridere e poi mi è rimasto nel cuore tutto quel periodo in cui pensavo con suffisso -enji. Infatti, alcuni mi chiamano ancora Martenji.

Post Rio è successo un po’ di tutto, ma subito il pensiero si è rivolto alla successiva edizione, Tokyo 2020. Non avevo mai esplorato la cultura giapponese, mi sembrava cosa da “nerd” e non mi attirava particolarmente. E invece… già nel 2018 ho ricevuto il primo invito in Giappone in occasione delle gare nazionali. Mi son portata il mio fidanzato, attuale marito e siamo stati colpiti da un incantesimo: stregati dal cibo, dalla cortesia, dalla pulizia, dall’estrema gentilezza di questo popolo così distante e diverso da noi.

E poi di nuovo, un altro invito per le gare del 2019, da sposati, abbiamo persino ricevuto un regalo di nozze da parte di una signora dell’organizzazione: due paia di bacchette stilose che abbiamo denominato “deluxe”. Non facciamo che parlare di quei due viaggi agli amici, non vediamo l’ora di tornarci.

Comunque, poi io ci son tornata, per i Giochi di Tokyo posticipati al 2021, ma non era la stessa cosa: tutto blindato, gli spostamenti consistevano in pista-hotel, hotel-pista, hotel-villaggio paralimpico, villaggio-pista e bon. Però la gente sempre super sorridente ed i servizi veramente efficienti. Ah, be’ loro non avranno il bidet, ma hanno dei water ultratecnologici che ce li sogniamo: seduta che puoi riscaldare, spruzzo di acqua in varie direzioni a seconda del bisogno, phon asciuga culetto e persino musichetta copri rumori, il tutto attivabile con dei bottoni. Chettelodicoaffà.

Questa volta non ho imparato la lingua, perché troppo complessa (sebbene io abbia delle basi di cinese), ma ho avuto un lascito giapponese che va ben oltre. Nel 2022 mi contatta una mia avversaria giapponese, Kaede Maegawa, anche lei amputata sopra il ginocchio, e mi chiede di poter passare un periodo durante la primavera/estate ad allenarsi insieme a me, nella mia città. Ho pensato che un po’ di compagnia non mi avrebbe fatto male.

Quell’anno non c’erano appuntamenti internazionali ed io avevo da poco iniziato la mia collaborazione con il mio nuovo allenatore, Gianni, il quale ha accettato anche quella proposta di allenamento. Si trattava di un’ulteriore sfida per lui che era approdato da poco nel mondo paralimpico. Gianni è molto scrupoloso e “non fa per fare”: quando fa, si dedica animo e corpo, notti insonni e appunti, video, pensieri che gli scaldano la crapa. Dettaglio interessante in questa storia è che lui proviene da Leffe, un paese nella Valle Seriana, dove ovviamente si parla il dialetto.

Quindi l’incontro tra lui, che non parla inglese e Kaede, che non parla italiano, è stato teatrale. Io, in mezzo, a mediare e tradurre, cosa che poi a me piace molto. Kaede era alla sua prima esperienza internazionale, al di là delle gare: era la prima volta che passava un periodo lungo da sola fuori dal Giappone; perciò, le sue antenne erano totalmente tese verso ogni novità e credo di averle creato vari piccoli shock durante la sua permanenza.

Lei ha deciso di seguire i nostri allenamenti ed eseguire gli stessi esercizi del mio programma, per non sballarci i ritmi, ma credo soprattutto per imparare qualcosa di nuovo. Mi sono sentita lusingata, perché tra tutte le atlete del mondo lei ha scelto me, sebbene mi conoscesse poco. Questo suo spirito, così di lanciarsi nel vuoto, mi ha ricordato il mio, in particolare quello dei miei vent’anni, e dunque ho deciso di accoglierla e di darle tutto quello che ho ricevuto finora dalle persone incontrate nei miei viaggi. Una sorta di dharma che gira.

Il suo approccio in terra bergamasca è avvenuto dopo il Grand Prix a Jesolo, quando l’ho riportata a casa con me. Stanche morte, dopo la gara ed il viaggio, siamo arrivate nel mio salotto e le ho detto di fare come fosse a casa sua. Io, nel frattempo, mi muovevo per casa, andando in bagno e sistemando qua e là le valigie. Ad un certo punto, sentendo silenzio, mi giro e la trovo immobile lì dove l’avevo lasciata. Ho capito che forse dovevo essere più esplicita.

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Lei aspettava una mia mossa, non so un gesto di cortesia o qualsiasi altro cenno che le desse indicazioni su come comportarsi. Io dal mio canto sono abituata ad ospitare amici o conoscenti da sempre e di solito lancio due lenzuola, due asciugamani ed il resto vien da sé, senza troppi convenevoli. Ma questa volta lei aveva addirittura dei regali per me. Che meraviglia, me li ha dati davanti ad una birretta che alla fine son riuscita ad offrirle.
Da quel momento è iniziata la conoscenza reciproca e la misurazione di quegli equilibri tra “ospite” e “ospitante”; autonoma nel suo B&b vicino al campo, ho sentito fin a subito l’impulso di guidarla nella scoperta della mia città e anche dell’Italia in generale.

Lei è una tipa molto disciplinata e il suo obiettivo principale era allenarsi, ma direi anche mangiare e scoprire la cultura culinaria italiana. È infatti appassionata di cibo, di come si cucina, di come si degusta, di come si presenta. Qui ha trovato sicuramente “pane per i suoi denti”. L’ho portata subito a degustare i piatti tipici, ma avvisandola: “Guarda che con la pasta si ingrassa”; spesso gli stranieri pensano di provare tutte le delizie e uscirne indenni.

Comunque, ogni giorno la sua presenza mi riportava indietro con la mente ai miei viaggi in Giappone, perché alla fine ovunque tu vada il tuo spirito ti segue e così è stato per la gentilezza, la pacatezza e l’esplosione di risate tipiche dei giapponesi che avevo conosciuto fino a quel momento. È la persona più positiva che io abbia mai conosciuto in vita mia: non sorride solo esternamente, ma anche dentro. Non so se tutti siano tutti così, ma di certo è quello che danno a vedere. Con lei ho condiviso momenti importanti, come gare internazionali, ma fino a quell’estate non avevamo mai parlato molto, anche per la barriera linguistica.

Lei è stata di certo paziente, sicuramente all’inizio, perché non potevo tradurre tutto e dunque cercava pian piano di captare una parola qui una parola là. L’ho avvertita che di solito quando sentiva la parola “lei” si trattava di qualcosa che la riguardava, così giusto per chiarezza. Non c’è cosa più brutta di trovarsi all’estero e non sapere se ti stanno parlando alle spalle oppure no. Abbiamo quell’anno viaggiato in lungo e largo per le gare italiane, Roma, Savona, Grosseto e lei sempre il +1 che andava a sommarsi al trio del podio di Tokyo. Non si lamentava se per lei non c’erano premi, non si lamentava di nulla, mai.

Un giorno l’ho portata ad una grigliata con amici e si è ritrovata a giocare a Poker in coppia con un mio amico a petto nudo che le parlava con un inglese maccheronico mentre fumava e la abbracciava tutto sudato. Ho pensato che se superava quella poteva farle tutte. Ne è uscita pulita e ancora ricordiamo con simpatia quel pomeriggio.

Un’altra volta siamo andate in canoa e lei mi ha confessato che era la sua prima volta. Mi sono sentita importante. Son le piccole cose che ci rendono felici. Come quell’altra volta, quando siamo andate a trovare Ambra (Sabatini) in diretta dopo una gara nelle sue zone, e, davanti al mare di Porto Ercole, sotto il sole cocente, lei mi guarda e mi dice una frase del tipo “come sono felice di essere nata in questo mondo”. Ma wow!

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ambra sabatini martina caironi Kaede Maegawa
Ambra Sabatini, Martina Caironi e Kaede Maegawa

Poi, quest’anno, è tornata, anche se solo per poche settimane. Eravamo già rodate, quindi la prima notte a Bergamo, quella in cui l’ho ospitata di rientro dalle gare, si è preparata il letto da sé e non ha avuto bisogno di troppe spiegazioni per sentirsi a suo agio. Un giorno, dopo l’allenamento, l’ho portata da “Giuliana”, una trattoria tipica di Bergamo, famosa per la sua proprietaria e per il suo stile chic e stravagante.

Il menù del pranzo l’ha soddisfatta alla grande e tra una risata e l’altra siamo finite al bancone a bere il caffè, rigorosamente espresso. Noi due in giro insieme attiriamo bene l’attenzione, soprattutto se in pantaloncini, in tenuta sportiva. Una signora ha iniziato a farci domande indiscrete, alle quali io sono abituata, fino ad arrivare a domandarle se potesse comandare la protesi col suo cervello. Le grasse risate una volta uscite dal locale ci hanno unite ancora di più. È così facile esserle amica.

Il giorno dei saluti, dopo la gara di Leverkusen, ha consegnato a me e a Gianni due lettere scritte in inglese ed in italiano (più una per i miei genitori dai quali siamo state ospiti più di una volta a cena). Ci ha stesi tutti quanti. Parole bellissime e piene di profondità che mi hanno fatto ricordare quanto sia importante prendersi del tempo per dare valore a ciò che viviamo.

Anche se a volte non è facile da comprendere, la diversità è un arricchimento, non mi stancherò di ripeterlo. Ed ora gli occhi verso Parigi 2024, tra baguette, quiche, tour Eiffel, la vie en rose e chissà quante altre influenze francesi… au revoir!

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Martina Caironi
La vita a 18 anni le ha fatto cambiare idea e prospettive in seguito all'amputazione della gamba sinistra. E’ diventata un’atleta paralimpica che ha scritto alcune delle più belle pagine dell’atletica leggera salendo, per l’Italia, sul gradino più alto del podio. E’ componente del consiglio internazionale degli atleti dell’IPC, ha girato il mondo, imparato lingue ma soprattutto è messaggera di positività ed inclusione. Per lei non si deve parlare di disabilità ma di abilità, di quello che le persone possono, devono fare, avendo ben presente gli obiettivi da raggiungere.

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