“Abili” e “disabili”, ma in base a che cosa?

Partiamo dal presupposto che siamo nati in una società “abilista”, cioè che di base imposta i suoi servizi sulle persone cosiddette “abili”, che non hanno difficoltà a fare scale, a raggiungere il bancone del bar o dei prodotti sugli scaffali del supermercato. Poi ci si è accorti che esistono anche alcune persone (ben il 15% della popolazione mondiale) che certe cose non sono in grado di farle autonomamente.

E allora, cosa è successo? Che son state costruite rampe, a volte con pendenze vertiginose tra l’altro; sono stati aperti sportelli pubblici all’altezza giusta, si è iniziato a parlare di “accessibilità”. I semafori si sono dotati di segnalatore uditivo per permettere ai ciechi di attraversare la strada, poi ci sono i musei con la descrizione in braille e ancora i telegiornali con la traduzione in LIS per le persone sorde.

Eppure, ancora c’è bisogno di manifestare in piazza per richiedere diritti innegabili, quali l’assistenza gratuita e il sussidio economico alle famiglie, nei casi di disabilità grave. Per avere un’inclusione a 360 gradi nella società c’è la necessità di creare spazi in cui chi vive la disabilità ogni giorno possa dire la sua, possa aiutare le politiche a migliorare in concreto e non solo sulla carta.

Pochi giorni fa ho assistito alla parte finale del primo Disability Pride, a Bologna, la mia città del cuore. Tra gli spunti che mi son rimasti impressi c’è la risposta che uno di loro ha dato a chi ha chiesto: “Ma io, che non ho nessuna disabilità, cosa posso fare nel quotidiano per poter cambiare le cose?”.

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martina caironi

È semplice, non normalizzare la discriminazione. Vale per tutte le discriminazioni ed è proprio vero: non dobbiamo guardare e andare oltre. Ci possono capitare molte situazioni in cui ci rendiamo conto di avere di fronte una forma di esclusione, come per esempio quando l’ingresso in un locale preclude l’accesso ad una persona in carrozzina. O quando qualcuno si rivolge all’accompagnatore di una persona disabile, dando per scontato che lei non sia in grado di interloquire, pazzesco.

È evidente che l’ambiente è il primo fattore esterno a definire la disabilità di una persona. La mia vita, in particolare dai 18 anni in poi, mi ha permesso di conoscere tante persone con una disabilità e il mio punto di vista sul mondo è gradualmente cambiato. Noto subito quando un luogo non è accessibile, ma è vero che nemmeno io lo puntualizzo ogni volta, perché normalmente chi ci lavora non è responsabile di questo. Inoltre, io indosso una protesi che mi permette di fare quasi tutto e quindi mi adatto bene anche in situazioni non comode. Dovremmo però provarci di più nel far notare quando qualcosa non è accessibile: chiunque, nel suo piccolo, può contribuire ad un cambio di mentalità, di cultura.

Ogni persona con disabilità vuole vivere oltre i propri confini casalinghi ed è giusto dare a tutti l’opportunità di farlo. Ci vogliamo abituare a vivere senza essere scrutati dalla testa ai piedi, senza che la nostra sfera privata sia puntualmente invasa da uno sconosciuto con domande invadenti e irriverenti circa l’origine della nostra disabilità.

Il confine tra “abile” e “disabile” sta nell’intelligenza di saper interagire col mondo, anche se purtroppo per alcuni è richiesto il doppio dello sforzo. Voi, che dal divano guardate le vite degli altri, alzatevi e vivete la vostra.

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Martina Caironi
La vita a 18 anni le ha fatto cambiare idea e prospettive in seguito all'amputazione della gamba sinistra. E’ diventata un’atleta paralimpica che ha scritto alcune delle più belle pagine dell’atletica leggera salendo, per l’Italia, sul gradino più alto del podio. E’ componente del consiglio internazionale degli atleti dell’IPC, ha girato il mondo, imparato lingue ma soprattutto è messaggera di positività ed inclusione. Per lei non si deve parlare di disabilità ma di abilità, di quello che le persone possono, devono fare, avendo ben presente gli obiettivi da raggiungere.

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