Le Paralimpiadi di Pechino 2022 e le sue mille facce

Mi piace esordire nella mia rubrica con gli amici di AbilityChannel parlando di quello che mi entusiasma di più: le Paralimpiadi.

Risale oramai a un paio di mesi fa il mio rientro da Pechino, dove si sono svolti i più recenti Giochi invernali. Poterli vivere dall’interno è un privilegio per pochi, e infatti bisogna sudarsela in un modo o nell’altro. A differenza del mio ruolo d’atleta che mi permette di accedere a questa esperienza unica ogni quattro anni, questa volta ero lì ed alloggiavo all’interno del Villaggio Paralimpico come rappresentante degli atleti dell’International Paralympic Commettee.

Nel consiglio degli atleti ci sono 9 posti di cui 6 rivestiti da atleti o ex atleti di discipline estive, mentre 3 sono di quelle invernali. A Tokyo sono stata eletta e dunque il mio compito era qui quello di incentivare gli atleti a votare per i candidati invernali, oltre a parlare di interessanti iniziative promosse dall’IPC, tra cui l’importante campagna “WeThe15”.

Ho toccato con mano l’intricata burocrazia pre-partenza, che di solito sbriga la segreteria, e che mi ha fatta impazzire fino al giorno prima di prendere il volo. Con mia grande sorpresa, appena arrivata in aeroporto mi trovo tutta la squadra italiana pronta ad imbarcarsi: incontro anche un atleta dello snowboard che, pur non essendo stato convocato, aveva deciso di andare a salutare i propri compagni, che cuore!

C’era Tiziana Nasi, presidente della Finp, lì a dare l’ultima pacca sulla spalla alle sue ragazze e ai suoi ragazzi, un clima che si vive solo durante le grandi partenze, prima dei grandi eventi. È stato emozionante vederli nelle loro divise Armani così familiari e sentire la “frizzantezza” nell’aria che ci ha poi accompagnati su tutto il volo.

La partenza verso le Paralimpiadi di Pechino 2022

Ancora prima di decollare, ci rendiamo conto di quello che si prospetterà nelle prossime settimane, perché le hostess e gli steward son totalmente bardati dalla testa ai piedi, con solo gli occhi visibili e ben protetti dietro a delle mascherine di plastica: mani, piedi, testa, tutto coperto. Noi da buoni italiani invece ci alziamo, parliamo, cambiamo di posto, dormiamo senza mascherina e coi piedi che sporgono dai sedili, si creano anche dei salottini dove si ritrovano i sonnambuli a chiacchierare.

All’arrivo l’adrenalina si mischia con la stanchezza dando origine a quelle battute da viaggio e a quell’occhio a mezz’asta che trascina il corpo dietro di sé per inerzia. Tutto molto bene. Ci dividono in tre gruppi a seconda del villaggio in cui siamo destinati: Beijing, Zhanjiakou, Yanqing.

Io sto a Pechino, coi ragazzi dell’Hockey. Sempre che ci arriviamo sani e salvi. Ci passano allo screen controllando ogni certificato, valigia, capello, fino alla prova finale, il tampone cerebrale! Sì, perché non si può definire rinofaringeo un tampone che ti fanno arrivare fino al cervello: un dolore che si faceva sentire già dalla persona che ti precedeva, che urlava o piangeva in silenzio dopo essere stata sottoposta a questa prima tortura.

Non sto esagerando, chiedete a chiunque e vi dirà che quello all’aeroporto di entrata è stato il peggiore test anti-Covid della storia. Dovevano pur esser certi al cento per cento che non fossimo infetti eh. E non c’era nessuna pacca sulla spalla, ma altri “astronauti” in fila ad indicarti il passaggio successivo del tuo percorso verso la destinazione finale.

E qui arriva subito la prima riflessione su questo paese che ci ha accolti sicuramente al meglio delle sue possibilità, ma che inevitabilmente si scontra con la nostra idea di libertà personale. Per un italiano essere così incasellato può diventare fonte di frustrazione e ansia, perché si percepisce chiaramente l’impossibilità di scegliere qualcosa che non sia già stato scelto per te.

Vari episodi durante la mia esperienza a Pechino hanno confermato questa mia sensazione di ingabbiamento e, sebbene fosse necessario del rigore per contenere la diffusione del virus, è palese quanto la diffusione di idee sia considerata altrettanto pericolosa.

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Misure di sicurezza all’interno del Villaggio Olimpico – Foto di Martina Caironi

Paralimpiadi Pechino 2022: il reportage dal Villaggio Olimpico

Dopo poche ore, mi ritrovo dentro al Villaggio Paralimpico di Pechino, che emozione! Mi viene a prendere Isnar che scopro essere un uomo ispanohablante, mentre pensavo fosse una donna anglofona, visto che nello scambio di e-mail il suo cognome “Vera” mi aveva fuorviata. Lui sarà il mio guru nei 10 giorni successivi, il mio “superiore” dell’IPC e colui che gestisce tutto lo stand in cui ruotiamo a turno io, Richard e due volontari.

Nel mio appartamento al decimo piano aspetto per ore l’esito del tampone killer e intanto mi godo la vista del “Nest Stadium”, il famoso stadio a forma di nido in cui si è svolta l’Olimpiade e Paralimpiade del 2008 e in cui si sono celebrate le cerimonie di apertura e chiusura di quest’anno.

Appena mi “liberano”, vado subito a visitare il più possibile e scopro la mensa, le sale ricreazione con dei videogiochi interattivi e mi sento come in una dimensione parallela, perché attorno a me ci sono tutti questi volontari completamente protetti, come gli inservienti sull’aereo, che mi scortano e ridono ad ogni gesto che faccio.

Un giorno provo anche un esperimento: invito una di loro a sfidarmi a tennis tavolo, uno degli sport in cui i cinesi sono i più forti al mondo. Scopro con grande delusione che la ragazza non sa nemmeno colpire la pallina con la paletta e così lascio la stanza con un altro stereotipo abbattuto.

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L’entrata del Villaggio Olimpico – Foto di Martina Caironi

Ogni giorno accadeva qualcosa all’interno delle strutture ospitate dal villaggio, come quella volta che sono entrata in lavanderia e mi hanno letteralmente circondata facendo complimenti per i miei capelli colorati, la mia mascherina arcobaleno e i miei occhi azzurri, fino ad arrivare al climax della situazione in cui una “bassettina” si avvicina con le braccia spalancate e senza che possa avanzare alcuna obiezione mi abbraccia forte dicendomi “I love you”. Ok.

Allo Stand del “Proud Paralympians”, situato proprio all’ingresso della mensa, avevamo varie attività da proporre agli atleti: la priorità era farli votare, poi c’erano l’albero dei valori paralimpici su cui appendere delle striscioline con scritto “I dream…” e “ I was inspired by…”. Inoltre c’era la possibilità anche di farsi una fotografia accanto alla torcia paralimpica.

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L’albero dei valori olimpici – Foto di Martina Caironi

L’emozione di essere staffettista della torcia paralimpica

A proposito di torcia. Qualche settimana prima di partire ho partecipato ad un’estrazione indetta dall’IPC per chi avrebbe fatto parte della staffetta della fiamma olimpica a Pechino, e incredibilmente l’ho vinta! Ero dunque in attesa di sapere come e quando l’avrei trasportata per un tratto, come si sarebbe svolta la cerimonia, e intanto immaginavo quanto sarebbe stato emozionante farlo.

A qualche giorno dall’inizio dei giochi mi arriva finalmente tutto il kit del vestiario e un documento in cui mi annunciano ufficialmente che sarò la staffettista il giorno prima della cerimonia di apertura; in fondo al comunicato leggo quasi di sfuggita la frase “La torcia può essere trasportata solo come bagaglio in stiva”. Whaaaat?? Questo significava che potevo portarmela a casa?? Sìììììì!!

Il grande giorno scopro di essere la numero uno, quella che partecipa all’accensione della Fiaccola e alla prima presentazione davanti a media. Che emozione, davvero, non so se potete immaginarla! Avevo il sole in faccia e cercavo di tenere gli occhiali da sole il meno possibile per non rovinare le immagini e per non tirarmela insomma, ma la luce cinese vi assicuro che non è come quella europea.

Avevo già la mia torcia tra le mani e, quando è scoccata l’ora d’inizio, mi hanno posizionata davanti al manifesto dove è iniziato un mitragliamento di click fotografici che è durato qualche minuto. Mi sono sbizzarrita con mosse di ogni tipo, alzando la fiaccola al cielo, baciandola, mi sono messa persino a cullarla visto che era ancora spenta e sentivo i fotografi sghignazzare dietro le camere.

C’erano tutte le principali emittenti televisive cinesi ed io ero lì, con il batticuore e gli occhi lucidi, pronta a ricevere l’eredità millenaria del fuoco olimpico. Mi hanno detto di andare veloce perché il gas della fiamma sarebbe durato solo pochi minuti e avrei dovuto coprire due parti della staffetta in quanto mancava uno staffettista: il grande assente era Andrew Parsons, presidente dell’IPC, impegnato in riunioni di emergenza causa conflitto ucraino.

Datomi il via son partita col mio passo spedito (non potevo correre con la protesi da cammino), ho iniziato a salutare in tutte le lingue e, sorridendo come una pazza, ho persino detto in cinese 我很高兴, wo hen gaoxing, io sono molto contenta! Ero in estasi effettivamente!

Arrivata alla fine dei 150m circa, ho passato il fuoco al secondo partecipante e ho percepito un’energia incredibile, come se mi avessero attraversato secoli di tradizioni, di lotte, di speranze. Mi sono rimessa finalmente i miei occhiali scuri e ho lasciato che le lacrime scendessero tranquille. Me lo sono meritata un piantino olimpico.

Le Paralimpiadi di Pechino 2022 e la gioia di riabbracciare il pubblico

E a proposito di piantini di commozione, la trasferta mi ha regalato un’altra grande emozione che non vivevo da ormai cinque anni. La sera della cerimonia di apertura ho ricevuto il biglietto del “presidential box”, ovvero della tribuna d’onore, insieme a tutti i dipendenti dell’IPC e altri, sopra al piano dei “presidentoni”.

Entrati nella sala c’era un buffet con cibo delizioso e anche dell’ambitissimo vino, di cui eravamo a secco ormai da giorni e giorni. Io ero in coppia col mio partner-in-crime Richard, un simpaticissimo francese a capo del programma Proud Paralympian e mio collega lì a Pechino, con il quale alternavo i turni di lavoro. Quella volta invece lo aiutavo nei tratti in cui c’era la moquette, nemica delle carrozzine, poi per il resto mi preoccupavo che non rimanesse mai senza il suo calice pieno e ci siamo fatti delle belle risate insieme.

Ad un certo punto vedo una porta che dà sull’esterno e mi chiedo se non sia quella la nostra uscita verso la tribuna. Così, impreparata, faccio capolino con la testa e poi con tutto il corpo al di là della soglia e… brividi! Mi spiazza la vista dello stadio illuminato e soprattutto le lucine in corrispondenza degli spalti: quella era gente, era il pubblico!

Si trattava dei volontari cinesi che avevano acquistato il biglietto e che potevano riempire il cinquanta per cento della capienza totale. Gli occhi si sono inumiditi inaspettatamente ed ho respirato a fondo per godermi tutta quella sensazione, per viaggiare indietro nel tempo e sfiorare i flashback delle mie cerimonie precedenti per poi tornare subito al presente, proprio lì, perché quello era vero, di nuovo. A Tokyo, quando ho gareggiato l’estate scorsa, gli spalti erano paurosamente vuoti tanto da far risuonare l’eco dei fantasmi di un pubblico che non poteva urlare ed applaudire. Ora lì, ritrovare la magia della vita e dello stadio pieno, mi ha tutto d’un tratto ricordato quanto mi sia mancato!

Quando poi l’altoparlante ha annunciato di accomodarsi perché la cerimonia stava per iniziare, be’, che dire, ho messo il mio sedere su quella poltrona e non mi sono più staccata, ammaliata dallo spettacolo visto da una prospettiva decisamente privilegiata.

Accanto alla nostra postazione c’erano delle sacche con tutto il kit di sopravvivenza: thermos con tè caldo, copertina, mascherina, una sciarpina e persino un binocolo per osservare meglio i dettagli. Il momento in cui ha sfilato l’Italia è stato bellissimo perché ho sentito una forte empatia nel vedere i sorrisi dei ragazzi, ho ricordato come ci si senta quando si è lì, al centro del mondo. Allo stesso tempo mi son sentita fiera di me, per come sia riuscita a rivestire anche un altro ruolo ad alto livello ed essere lì come spettatrice d’onore. Lo sport mi sta facendo crescere e provare emozioni uniche che augurerei a chiunque.

Come la Guerra in Ucraina ha cambiato le Paralimpiadi di Pechino 2022

A Pechino ho vissuto un altro momento storico importante: la violazione della tregua olimpica da parte della Russia che ha invaso l’Ucraina. Forse Putin ha considerato degne di tregua solo le Olimpiadi e non le Paralimpiadi; i fatti parlano da sé.

La tragedia della guerra è qualcosa che non si vorrebbe mai nemmeno sfiorare, eppure le notizie dei bombardamenti su Kiev e nelle principali città ucraine hanno iniziato a riempire i giornali. Dalla nostra bolla Covid, bolla Paralimpiade, ci sentivamo coinvolti, ma allo stesso tempo così salvi, così lontani dal disastro, dalla disperazione, dalle lacrime. Eppure, gli atleti ucraini erano lì davanti ai nostri occhi, con la preoccupazione nel cuore, pronti a gareggiare e a rappresentare il proprio paese devastato.

Come rappresentante atleti ho potuto vivere da molto vicino il processo decisionale dell’organo deputato a prendere posizione in questioni di questo tipo. Il Governing Board dell’IPC, di cui è membro anche il nostro presidente del Cip Luca Pancalli, ha preso due direzioni diverse un giorno in seguito all’altro. Il tutto a cavallo della mia esperienza come Porta Torcia e giusto in tempo per la cerimonia di apertura delle Paralimpiadi.

La prima decisione è stata di permettere gli atleti russi e bielorussi di gareggiare ma senza bandiera, senza inno, e senza fare parte del medagliere. Un bel messaggio di protesta nei confronti del governo russo che sta facendo scempi. Il giorno dopo, si riunisce nuovamente ed il verdetto finale vede l’estromissione totale di questi atleti dai Giochi. Fine, a casa, kaput.

Da atleta so quanto deve aver bruciato questa scelta per chi era lì, dopo quattro anni di allenamenti e sacrifici, inseguendo un sogno più forte del Covid, più forte della disabilità, più forte di tutto. Informandomi meglio ho indagato su come fosse potuto accadere, visto che i politici che rivestono i piani alti dell’IPC sono anche uomini e donne di sport, molti ex atleti: sicuramente ci dev’essere stato un motivo in più che li ha spinti ad un cambio così radicale. Quello che ho raccolto è che ci sono state pressioni e minacce di boicottaggio da parte di altre squadre, oltre chiaramente alle pressioni politiche internazionali.

Secondo il mio modesto parere, l’IPC avrebbe potuto avere il coraggio di rischiare e andare contro la tendenza anti-russa. Sarebbe stata una scelta molto azzardata e in cui si sarebbero potuti perdere miliardi e miliardi, ma gli ideali non sono forse i pilastri nel nostro movimento?

Lo dico dopo averci pensato su parecchio, con il rischio di sembrare naïf, ma credo fermamente che non siano gli atleti a dover subire per un governo che prima li condanna ad una punizione esemplare a causa dello scandalo doping, poi all’estromissioni dai Giochi Paralimpici in corso d’opera. Come chiaramente non devono essere i civili a pagare una guerra sanguinosa. È stato penoso vedere la “processione” di atleti con le loro valige che andavano verso i cancelli d’uscita, ancora prima di aver potuto esprimere il loro valore atletico.

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La sera prima della cerimonia di apertura mi sono recata al villaggio paralimpico di Zhanjiakou, con la speranza di poter l’indomani vedere alcune esercitazioni delle squadre di snowboard. Causa maltempo mi sono dovuta accontentare di un giro turistico all’interno del Village. Ho incontrato la squadra italiana e in mensa ho finalmente conosciuto una delle più grandi snowboarder che ha la mia stessa disabilità e con la quale spero di poter un giorno gareggiare, Brenna Huckaby.

Così tra il fremere degli atleti di tutto il mondo che aspettavano il grande evento, la sera della vigilia mi sono imbattuta in atleti russi e bielorussi che riempivano le zone ricreative fino a chiusura, come a voler godere fino all’ultimo il loro sogno infranto. All’interno della grande “dining hall” per un attimo si è palesata davanti a me l’immagine di atleti russi e ucraini l’uno accanto all’altra, in fila per prendere da mangiare e questo mi ha fatto riflettere sul paradosso della guerra, su quanto l’uomo dia il peggio di sé per la brama di prevaricare.

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Atleti paralimpici ucraini e russi insieme alla mensa del Villaggio Olimpico – Foto di Martina Caironi

Se prima pensavo che lo sport potesse trascendere ogni cosa, ora ho la prova che non è così, perché riveste inevitabilmente un ruolo politico in un mondo che ha perso decisamente la bussola.

Lascio per la seconda volta nella mia vita la Cina con quella sensazione di averne abbastanza delle sue regole e delle sue contraddizioni, ma questa volta allo stesso tempo ne sento già un po’ la mancanza, per il suono della sua lingua, per l’ingenuità vera o finta dei volontari, per la cultura millenaria intrisa nella scrittura più difficile al mondo che i cinesi usano tutti i giorni. Non so se ci tornerò, ma questa esperienza rimarrà tra le più indelebili nel mio 心xin, cuore.

Martina Caironi
La vita a 18 anni le ha fatto cambiare idea e prospettive in seguito all'amputazione della gamba sinistra. E’ diventata un’atleta paralimpica che ha scritto alcune delle più belle pagine dell’atletica leggera salendo, per l’Italia, sul gradino più alto del podio. E’ componente del consiglio internazionale degli atleti dell’IPC, ha girato il mondo, imparato lingue ma soprattutto è messaggera di positività ed inclusione. Per lei non si deve parlare di disabilità ma di abilità, di quello che le persone possono, devono fare, avendo ben presente gli obiettivi da raggiungere.

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