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Paolo Ruffini, intervista tra Up&Down e tutela artistica post lockdown

Paolo Ruffini: "Siamo passati dai centri di manicomio a una morale pietistica insopportabile. Il teatro è un sistema sociale interessante"

Non è un segreto che il successo di “Up&Down” di Paolo Ruffini abbia riqualificato alcuni canoni culturali e concettuali riguardanti la disabilità. E, ancora di più, non è un segreto neanche l’esigenza della tutela artistica per gli operatori dello spettacolo.

Discorsi e dibattiti che, comunque, non sono nuovi nel panorama italiano, ma che con la pandemia da Coronavirus hanno trovato nuova linfa vitale. Per comprendere cos’è che ha permesso questo cambiamento di passo, abbiamo contattato lo stesso Paolo Ruffini.

Benvenuto Paolo Ruffini. Nel corso degli ultimi anni sei stato protagonista con “Up & Down”, che ha avuto risvolti incredibili. All’inizio, ti aspettavi questo successo?

“No. Sai, questo è un periodo dove tutto viene frainteso, è equivocato, sfugge al controllo di chi crea. Avevo tanta di questa paura, molti mi dicevano che, visto che nessuno aveva fatto ciò che stavo provando a fare io, un motivo ci doveva essere. E invece (esattamente così come molto spesso le persone con la Sindrome di Down non fanno delle cose perché nessuno gliele chiede), ho capito che nessuno aveva portato la disabilità in certi circuiti perché nessuno ci aveva mai pensato.

Quello che abbiamo fatto è stato di traghettare il mondo della disabilità in un circuito commerciale che prima invece non era toccato assolutamente. Ovviamente, gli spettacoli sulla disabilità esistevano, ma erano sempre in un circuito un po’ chic ed elitario. Invece il mio sogno era un altro: ma perché in prima serata su Italia 1 non vedo una persona con Sindrome di Down o non vedo parlare di disabilità con leggerezza, perché dobbiamo dare sempre pesantezza?

Siamo riusciti a realizzare una piccola avanguardia. All’inizio non mi aspettavo questo successo, mi aspettavo che ci fossero più ostacoli. Ci sono stati, ma non sono state barriere architettoniche di pensiero che ci hanno impedito di realizzare ciò che abbiamo fatto.”

Altro dettaglio: con “Up & Down” avete sottolineato che un attore con disabilità è prima di tutto un attore.

“Bravissimo, questa è la cosa su cui si insisteva sempre. Tutti dicevano che facevo uno spettacolo di beneficenza, ma ho sempre detto di no. Le organizzazioni di beneficenze sono straordinarie, così come gli spettacoli, ma quando li vai a vedere hai sempre un occhio indulgente.”

Un po’ pietistico.

“Esatto. Io invece ho parlato di attori, non dovevo giustificarli. All’inizio dicevo: ‘Come vedete non sono normali, infatti sono di Livorno’ [ride]. Volevo sottolineare che non c’era nulla da giustificare. Loro sono attori che vengono regolarmente pagati, come me e altri colleghi. Per me, la parità si raggiunge anche attraverso questo. Siamo in un momento storico dove siamo passati dal rinchiudere il diverso in centri manicomiali a a questa morale pietistica attuale insopportabile.”

C’è anche il concetto del superuomo: ad esempio, se un attore con disabilità fa l’attore, si dice sempre che è riuscito a superare il proprio handicap, che è un angelo caduto dal cielo.

“Oggi c’è la tendenza a dire ‘poverino’. Non credo che le persone disabili hanno voglia di sentirsi dire ‘poverino’. Hanno voglia di sentirsi dire ‘Tu vali quanto me’. Non la vedo come una roba eccezionale.”

L’arte, essendo un linguaggio della società, riesce a trasmettere certi messaggi. Però, se il pubblico non va a ringraziare gli attori con disabilità per il prodotto artistico di livello, mi lascia perplesso.

“Sono dell’idea che il teatro è un sistema sociale più interessante del nostro. Quando tu stai a teatro, non sbagli. Mentre ci stiamo battendo per dire ‘Siamo tutti uguali’, il teatro dice che siamo tutti diversi e sono tutte risorse. Se su quella diversità ci butto sopra un faro, quella diversità diventa ricchezza.

Poi mi succede che il teatro non fa tutti gli sconti che in maniera ipocrita facciamo nel nostro quotidiano: dobbiamo vederci alle 3 sul palco, se non ci sei problemi tuoi. È ovvio che, se hai un problema di deambulazione, dovrai partire prima, però non ci sono degli sconti. Non significa che c’è una severità marziale: è semplicemente l’adesione a un progetto che, al di là della propria condizione, nella misura in cui ti presti con la forza di volontà, significa l’adesione a un lavoro e a una professione. Vale su tutto.

Perché oggi faccio fatica a lavorare con persone che non hanno la Sindrome di Down? Ci sto meno volentieri. Preferisco stare con persone che, forse, a livello cognitivo sembra capiscano qualcosina meno o hanno meno cultura o non sanno bene chi è Leopardi, ma sentono molto, piuttosto che stare con persone dalla grande cultura, con grande intelligenza, ma che hanno una sensibilità di un cavatappi. È molto più importante essere sensibili che molto intelligenti.”

È un po’ espressione sociale di quella facciata a cui siamo abituati: idolatriamo una persona con disabilità quand’è morta e durante la sua vita parcheggiamo sui posti riservati.

“Sì, io parlavo per mia esperienza, era una cosa mia. A me diverte più così.”

Prima hai parlato di professione: da quando è scoppiata la pandemia, il mondo dell’arte ha fatto emergere l’esigenza di tutelare questa parte di società, anche perché non ci sono solo attori ma anche operatori del settore del dietro le quinte. Qual è la tua opinione? Cosa manca ancora, non solo a livello normativo ma anche a livello culturale, per far capire che l’arte è un lavoro?

“Al momento, la cosa è insormontabile. Abbiamo un problema culturale legato con la riconoscenza nei confronti del lavoro dell’artista. Dalla mia esperienza, l’unico posto dove il lavoro dell’artista è riconosciuto in maniera particolare è Napoli. In relazione agli abitanti, ha una densità di teatri molto più ampia rispetto a tutta Italia.

Se tu vai a Napoli e dici che fai il pianista, ti dicono “vieni vieni”. Se lo dici a Milano, ti chiedono per lavoro che fai. Non è riconosciuta come una professione in tutti i sensi. Quando il Presidente Conte afferma, dopo 8 decreti, di pensare anche agli artisti che tanto ci fanno divertire… Ma divertire di che?

Il signor Bellocchio che vince 8 David di Donatello con ‘Il Traditore’ non è che fa un’operazione divertente. Il direttore della fotografia che aiuta il signor Sorrentino a fare ‘I due Papi’ non è una roba che fa divertire. Questo è un Paese che pensa che sia tutto un cazzabubbolo, un lavoro come il mio che vado in televisione a fare il buffone.

Tuttavia, ci sono quelli come me che fanno il buffone e ci sono le persone che fanno divulgazione culturale, che fanno tutti i tipi di intrattenimento, dall’erotismo (totalmente sparito dalla nostra cultura) al western, al noir, al cinema, allo spettacolo, alla danza, alla musica da camera, e via discorrendo.

Quando finisce la comicità? Quando uno ti chiede ‘Ma che stai dicendo?’. Oggi, sui social, sono tutti a dire ‘Ma che stai dicendo?’. Tutti tirano la barba a Babbo Natale, levano la maschera al clown, struccano il pagliaccio. Quando fai così, resta solo l’uomo che, nella misura in cui lo spogli, lo distruggi.

Tutti quanti, dopo esserci sentiti 60 milioni di commissari tecnici, oggi siamo 60 milioni di critici cinematografici, 60 milioni di esperti di musica. Questa vicinanza del pubblico alla diffusione dello spettacolo e alla cultura ha massacrato il mito, l’etica e il mestiere.

Credo che chi legifera non ha un’idea del mestiere stesso, ma accade in vari ambiti: si fanno delle leggi sui lavori senza averne l’idea. C’è un protocollo Covid per girare i film che è assolutamente impraticabile.

Siamo diventati un popolo di offesi, esperti e rompic******i. Il pericolo è che lo Stato vada dietro questi umori, non calcolando che la cultura fa parte della sanità. Se uno Stato non produce più film, non consente più delle bellezze derivate dall’arte, diventa un popolo di imbecilli. Senza cultura, diventiamo degli idioti veri.”

Oggi siamo abituati a pensare all’arte e ai concetti sociali che richiedono maggiore pazienza come questioni “cotte e mangiate”, che richiedono 5 minuti: il comico ti fa una battuta in 5 secondi, la persona con disabilità che si butta in strada per chiedere diritti è una cosa da 5 secondi. Perché allora denigrare tutto ciò e in favore di cosa?

“Non c’è un vantaggio. Se tu mi chiedi 5 biglietti per un mio spettacolo è come se andassi al pizzaiolo e gli chiedessi di fargli 5 pizze. Non c’è percezione culturale che dietro ci sia impegno. Poi c’è sto politicamente corretto che ha rotto le scatole, è devastante.

Per essere politicamente corretti, non possiamo alzare la voce, non possiamo farci sentire. La verità è che l’Italia è il quartultimo paese nell’investimento per cultura. Oltretutto, questo investimento porta molto più guadagno rispetto a quello che viene investito: investono lo 0,8% e la cultura è all’1,2% del PIL. Ciò vuol dire che se tu investi 5, verosimilmente raccoglieresti 8.

Non c’è solo Checco Zalone, Paolo Ruffini o Paola Cortellesi che guadagnano tanti soldi. Quando mi sono fermato per il Covid, avevo un film per Colorado, sono rimaste a casa 200 persone precarie che hanno famiglie da mantenere. Uno dei fonici si è messo a fare il barista perché non c’è possibilità. Comunque, nel dramma, sono contento che ci sia una coscienza riguardo a ciò.”

Magari era meglio ci fosse stata prima, così le tutele sarebbero arrivate prima. Sembra sempre che ci deve scappare il morto.

“Noi siamo fatti così, non abbiamo lungimiranza. Siamo molto basici. Sono convinto che questa occasione deve essere una risorsa per occuparsi di ciò di cui non ci siamo mai occupati.”

Ultima modifica: 26/10/2020

Angelo Andrea Vegliante

Da diversi anni realizza articoli, inchieste e videostorie nel campo della disabilità, con uno sguardo diretto sul concetto che prima viene la persona e poi la sua disabilità. Grazie alla sua esperienza nel mondo associazionistico italiano e internazionale, Angelo Andrea Vegliante ha potuto allargare le proprie competenze, ottenendo capacità eclettiche che gli permettono di spaziare tra giornalismo, videogiornalismo e speakeraggio radiofonico. La sua impronta stilistica è da sempre al servizio dei temi sociali: si fa portavoce delle fasce più deboli della società, spinto dall'irrefrenabile curiosità. L’immancabile sete di verità lo contraddistingue per la dedizione al fact checking in campo giornalistico e come capo redattore del nostro magazine online.