Studi preliminari condotti dal centro ospedaliero universitario Campus bio-medico di Roma mostrano che la stimolazione intracranica può essere in grado di rallentare la progressione della Sla, una malattia degenerativa che colpisce dei particolari neuroni a livello di cervello e midollo spinale deputati al controllo del movimento muscolare volontario senza però compromettere in alcun modo le facoltà intellettive della persona, che resta perfettamente in grado di pensare e ragionare.
Una malattia della quale soffrono circa 400.000 persone nel mondo (più di 6000 solo in Italia) e la cui incidenza, secondo gli scienziati, tenderà ad aumentare negli anni, soprattutto nei paesi industrializzati.
Risale al 2006 l’inizio dello studio preliminare condotto da un’equipe di neurologi del Campus bio-medico di Roma che da anni studia le tecniche di stimolazione cerebrale per rallentare la malattia. Ed è proprio nel 2006 che il primo (ed al momento unico) paziente, un medico, ha deciso di sottoporsi a questa nuova tecnica che segna un punto di svolta rispetto alle precedenti, sicuramente meno invasive ma dai risultati poco soddisfacenti. Così a Sergio Orsini, al quale all’epoca la malattia era stata diagnosticata già da due anni e la cui prognosi non superava i tre anni di vita, sono stati inseriti due elettrodi nel cervello, precisamente in corrispondenza delle aree di controllo del movimento. Oggi, a distanza di 13 anni, il Dott. Orsini è ancora vivo, seppur grazie ad un ventilatore meccanico.
E’ ovvio che trattandosi di uno studio sperimentale per provare la validità della ricerca sarà necessaria la sperimentazione su un numero molto elevato di pazienti, come è ovvio che si tratta esclusivamente di un metodo pensato per rallentare la progressione della malattia e quindi fornire maggiori aspettative di vita a coloro che soffrono di una patologia per la quale una cura, non esiste.
Ma perché proprio la stimolazione cerebrale? Perché questa, come riferito dal Dott. Di Lazzaro, capo del reparto di Neurologia del Campus bio-medico a “La Repubblica“, sembrerebbe in grado di ridurre la risposta dei neuroni al glutammato, un neurotrasmettitore che nelle persone affette da Sla aumenta in modo significativo provocando la morte delle cellule cerebrali.
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